Parlare di inclusione, non alimentare odio

Non posso certo dire che prima fosse meglio.

Oggi, 22 novembre 2022, a Monopoli è lutto cittadino. Si celebrano i funerali di Sofia, una ragazzina di 13 anni, con il volto ancora da bambina, che si è tolta la vita una terribile domenica pomeriggio di pioggia battente e burrasca.

Dalle prime ricostruzioni pare che il gesto sia maturato in un contesto di esclusione, cancellazione dalla chat delle amiche, bullismo. È ancora presto per dirlo con esattezza ma sembra l’unica motivazione, ancorché incomprensibile, che possa aver alimentato la disperazione e quel sentimento di inadeguatezza proprio di tutti gli adolescenti. La sua morte ha lasciato tutta la città con un profondo senso di sgomento.

Leggo da molte parti che in fondo siamo tutti colpevoli per aver permesso accadesse una cosa tanto terribile ad una bambina. Non sono d’accordo. Siamo tutti vittime piuttosto, siamo tutti un po’ Sofia. Del resto a cosa serve adesso trovare i colpevoli?

Io mi sento come Sofia per lo meno. Anch’io in passato, proprio durante la scuola media, venivo rincorso, bullizzato dai miei compagni di classe. Impuniti e odiosi, mi chiamavano con un nomignolo che a ripensarci adesso mi fa sorridere ma che all’epoca mi sembrava ingiusto e del quale percepivo tutto il disprezzo che voleva trasmettere. Poi all’uscita da scuola, nel centro storico, mi aspettavano e se riuscivo a svignarmela mi rincorrevano fino in piazza per farmi quello che da noi si chiama cappottone, sarebbe a dire schiaffi sulla testa, in gruppo.

L’odio che provavo per quei ragazzi lo provo ancora adesso mentre scrivo, ricordando. Un periodo infernale, buio, del quale non ho ricordi belli dal quale ne sono uscito solo perché ho trovato il coraggio di parlarne ai miei genitori, che non immaginavano nulla, superando una vergogna inspiegabile con grande difficoltà. Quei compagni di classe poi sono cresciuti, come me, hanno intrapreso studi e carriere e non credo possano insegnare molto ai loro figli che probabilmente troveranno divertente schernire un coetaneo all’apparenza più fragile, un diverso da loro.

Il mio pensiero, come inevitabilmente quello di tutti coloro i quali hanno un figlio piccolo, che crescerà e probabilmente si troverà ad affrontare situazioni come quelle di Sofia, è quello di riuscire a trasmettere fiducia, sicurezza, a mostrarsi aperti al dialogo, ma anche severi qualora si dovessero percepire comportamenti a rischio.

Parlare in casa di inclusione, non alimentare odio, sviluppare l’empatia non sono cose banali. Se nell’ambiente domestico ci si riferisce al prossimo come “ricchione” o “negro”, se maestri e professori sono “stronzi” non stiamo aiutando i nostri figli, li rendiamo più deboli, non gli stiamo dando supporto, gli stiamo piuttosto togliendo la capacità di comprendere l’errore e di migliorare.

Il risultato di tutto questo oggi lo piangiamo tutti.

Impariamo la lezione che Sofia ci ha lasciato.

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