Il pane è un simbolo.
Già prima dell’avvento del cristianesimo, come testimonia Catone il Censore, era un simbolo religioso.
I romani offrivano agli dei una focaccina chiamata “libum” che conserva nel nome il ricordo della funzione sacra. Solo successivamente il senso offertorio del pane venne trasferito prima al latte e poi al vino.
E, dunque, le nostre libagioni nascono secche e non liquide, nei templi e non nelle osterie.
“È fede della Chiesa che Cristo nell’ultima cena ha offerto il suo corpo e il suo sangue – se stesso – a suo Padre e ha dato se stesso da mangiare ai suoi discepoli sotto i segni del pane e del vino”. Così recita una “notificazione” della Congregazione per la Dottrina della fede del novembre 2000.
In particolari ricorrenze, come la festa di San Giuseppe o la festa di sant’Antonio, le famiglie contadine erano solite confezionare piccoli pani dal chiaro significato simbolico di abbondanza e benessere.
Questi pani venivano portati in chiesa a benedire e riportati a casa per essere distribuiti ai poveri, agli amici e ai parenti.
Era convinzione diffusa che donare il pane fosse un modo per propiziarsi un buon raccolto e scongiurare, così, il pericolo della fame atavica.
Pane e padre sembrano legati da una comune radice – uscita dal sanscrito – a significare che questo elaborato dei cereali è anche un simbolo del potere.
Grano, farina e pace è una trilogia che, nella storia d’Europa, ha sempre preoccupato le città, gli Stati, i mercanti, gli individui per i quali vivere è “mangiare pane”.
Basta che il prezzo del pane aumenti e tutto prende ad agitarsi, come racconta Fernand Braudel.
Tra il secolo XV e il XVIII i disordini incombono a Milano, come a Parigi e a Napoli.
“Il popolo non sentirà mai ragione sull’alto prezzo del pane”, osserva Jacques Necker.
E ad ogni allarme è facile il ricorso alla violenza.
A Napoli, nel 1585, grosse esportazioni di grano verso la Spagna provocarono la carestia.
Giovan Vincenzo Storaci era un mercante accaparratore.
E invitava il popolo napoletano a mangiare pane “di castagne e legumi”.
Al rifiuto della gente replicava insolente: “Mangiate pietre!”.
Ci fu una rivolta e Storaci venne ammazzato.
Il suo corpo fu trascinato per la città, mutilato, fatto a pezzi.
Il viceré fece impiccare 37 uomini e 100 ne inviò nelle galere.A Milano, nel 1628, ci fu la “rivolta del pane”, descritta da Alessandro Manzoni nei “Promessi Sposi”.
Il prezzo del grano e del pane era aumentato notevolmente e il popolo, inferocito, assaltò diversi forni della città.
Ma quello denominato “forno delle grucce” venne “messo sottosopra”.
E “tutti coloro che gli pizzicavan le mani di far qualche bella impresa, correvan là, dove gli amici erano i più forti, e l’impunità sicura”.
A Parigi, nel 1692, i forni di piazza Maubert furono presi d’assalto e saccheggiati.
Due uomini vennero impiccati, gli altri condannati alle galere, alla gogna o frustati.
In seguito si ebbero migliaia di sommosse analoghe.
E iniziò allo stesso modo anche la Rivoluzione francese.
Nella “Storia economica dell’Europa pre-industriale”, Carlo Maria Cipolla descrive gli effetti della cosiddetta “piccola era glaciale” che va dalla metà del Cinquecento alla fine del Settecento.
Inverni rigidi ed estati fresche, aumento delle nevicate e delle piogge, avanzata dei ghiacciai alpini.
La troppa pioggia ostacola la maturazione e non consente alle piantine di mettere radici.
Nel decennio 1590-1600 l’agricoltura di tutta l’Europa occidentale fu messa in ginocchio.
Anche la Sicilia, il granaio d’Italia, nel 1592 cessa di esportare grano e si riduce essa stessa alla fame.
Le testimonianze dell’epoca riportano che in molte regioni della nostra penisola, la gente arriva a mangiare anche i cani, i gatti e persino i serpenti.
Nel secondo dopoguerra, la classe dirigente ha un’idea molto chiara di cosa significa “poter mangiare pane”.
Per i governanti, formare le riserve e garantire un continuo flusso di cereali sul mercato significa stabilizzare le monete e i salari, garantire il passaggio dalla guerra alla stabilità democratica e, quindi, costruire le basi per lo sviluppo industriale.
Il governatore della Banca d’Italia del tempo, Donato Menichella, partecipa assiduamente a tutte le riunioni del Comitato interministeriale per la ricostruzione in cui si discute del grano.
Egli è convinto che una politica sulle riserve di questo cereale sia una condizione per la ripresa della valuta.
Non a caso, la lira ottiene dal “Financial Times” il premio Oscar finanziario 1959.
Il prestigioso riconoscimento riflette la fiducia dei banchieri, dei governi e degli operatori commerciali nella solidità della nostra valuta e il loro compiacimento per la destrezza con cui tale obiettivo veniva conseguito.
All’interno e in apertura, foto di Princi per Olio Officina©