Filippo La Mantia appartiene a quel pugno di persone che dice sempre prima ciò che non è. Umile ambizione di arrivare, presto e bene, alla sostanza delle cose. Non sono questo, quello e soprattutto quanto ti stai immaginando in questo preciso istante.
L’effetto che fa una simile schiettezza è di rendere l’interlocutore più attento, magari solo un po’ più silenzioso. In fondo, per La Mantia si tratta di trovare il tempo per mostrare il di più che ha dentro e non concedersi alle etichette di un passato, il proprio, sempre troppo pittoresco agli occhi di molti.
“Non sono un cuoco, ma cucino per gli altri. Non sono un cuoco – precisa – nel senso di chi ha iniziato il mestiere da giovane, facendosi le ossa nei grandi ristoranti internazionali.
Io ho cominciato a quarantadue anni, partendo una seconda volta da zero. Non mi piace, quindi, giudicare gli altri dalla strada che imboccano, stabilendo chi può e chi non può. Ma soprattutto non sopporto chi non ammette il talento, l’abilità naturale. Chi non perde occasione per svalutarne gli effetti sulla vita e sul lavoro e, forse, perché manca tanto di tenacia che di fortuna, si sente in dovere di ridurre il successo altrui ad un inghippo, all’inevitabile aiutino o peggio ad un bluff”.
Che significa avere talento
Anticamente, con talento si identificava il piatto della bilancia, un peso, una somma di denaro.
Poi, significò l’inclinazione stessa che assume il piatto nel pesare. Infine, prevalse il significato cristiano, legato alla famosissima parabola dei talenti.
È interessante, la difesa che La Mantia fa del talento, in un’epoca dove tutto si acquista e si vende, sottoposto al dazio della tecnica che consente sì di imparare i procedimenti giusti, ma che non garantisce l’immediata capacità di dire qualcosa di personale, di esprimersi fino in fondo.
Anzi, a ben vedere, la proliferazione di scuole che insegnano tutto, addirittura la scrittura creativa, mostrano un fastidio nei confronti del talento, di questo superfluo, insinuante, antidemocratico, selettore naturale. Così, il rischio implicito di iscriversi a un bel corso è di ripetere la lezione a memoria, di finire tra la truppa che marcia al passo.
Il talento, la dote che come una bilancia ci permette di misurare il peso del mondo meno (-) le nostre più intime ambizioni, è qualcosa di superiore rispetto alla capacità o alla passione.
Chi ha capacità potrebbe mettere da parte la passione, chi ha passione giudica la capacità come una variabile, chi ha talento stima le capacità e trae energia dalla passione.
A riprova di quanto detto c’è, ad esempio, la naturalezza con cui La Mantia riconosce la bravura dei colleghi. Ne onora i risultati.
Ma soprattutto, c’è la coerenza di certe scelte.
La prima, la più curiosa e radicale, è il gran rifiuto di utilizzare aglio e cipolla, condimenti fedifraghi secondo La Mantia, autorizzati spesso a coprire il gusto diretto delle cose.
Il suo pesto di agrumi che li sostituisce pare proprio il paradigma del talento che cerca per passione un’alternativa, una risposta, un altro spunto di bellezza.
La seconda scelta, gravida di conseguenze, è la consapevolezza che il proprio ruolo corrisponde ad un progetto.
Cucina povera siciliana
“In qualsiasi posto io lavori – dice – dalla casa privata all’albergo di lusso, è il progetto La Mantia che conta. Vale a dire, fare e proporre la cucina povera siciliana. Povera che non significa il contrario di ricca, a condizione di “battere” i mercati, di scegliere la qualità che quel giorno ti viene offerta e molto spesso regalata.
Questione di naso, di tatto, di umanità, insomma. La prova di cosa si può combinare con un minimo di perizia e di buona volontà è tutta documentata. Al mercato Trionfale di Roma, la mia spesa per quattro persone è stata filmata. Un menu con quattro portate di pesce per la sostenibile cifra di venti euro venti”.
“L’ottanta per cento dei piatti che ho immaginato non sono sostituibili, perché continuamente richiesti. Penso alla pasta con le sarde, alla pasta con il pesto di agrumi, alla caponata, al baccalà fritto in agrodolce…
Quando viaggio – continua La Mantia – viaggio con un taccuino d’appunti a portata di mano. Posti, storie e persone possono far scaturire un’idea o a volte lasciare spazio ad un ricordo, ad una immagine, ad un profumo che ritornano.
Qualche tempo fa, ad Istambul, ho visto un fritto che voglio rifare, perché tale e quale al fritto della mia città, di certe ore della mia vita, di Palermo”.
Se non cuoco, che cosa allora? “Oste e cuoco”.
Ecco un’altra etimologia intrigante, una parola che condivide la sua radice con oste nel senso di forestiero, straniero e per estensione: nemico.
L’oste, quello vero, è pronto ad accogliere chiunque si presenti all’uscio. È un dovere, è quel talento che, superata la linea dell’ipocrisia, può diventare anche una sorta di vocazione.
Il testo qui pubblicato riprende tal quale l’articolo di Nicola Dal Falco apparso in gennaio sull’annuario Olio Officina Almanacco 2014, volume in edizione cartacea pensato per collezionisti che amano l’olio da olive come espressione di cultura.
La foto di apertura dell’articolo ripreso su Olio Officina Magazine ritrae lo chef Filippo La Mantia. Cogliamo l’occasione per ringraziarlo di averci fornito e messa a nostra disposzione la foto.