Il mio è un sogno di libertà

Rita Licastro è nata a Roma nel 1965, dove poi ha vissuto la prima infanzia. Negli anni ‘70 la famiglia si è trasferita in Calabria. A Reggio, per l’esattezza, dove ha frequentato le scuole dell obbligo e conseguito il diploma di maturità classica al Liceo Classico Tommaso Campanella, nel 1983. Si è poi laureata 1988 in giurisprudenza all’Università di Messina, ottenendo successivamente l’abilitazione per la professione di avvocato, che ha esercitato fino al 1995 ,anno in cui è subentrata alla conduzione dell’azienda di famiglia.

Chi sono, come sono. Amici e familiari, debitamente interpellati, mi ritengono affidabile, benevola disponibile e disposta al sacrificio personale. Di contro i miei limiti li ritrovo nella mancanza dei toni intermedi, sono fin troppo risoluta nelle scelte e nelle convinzioni. Ed essendo, di fondo, un’impulsiva, lo sforzo che applico nella mia quotidianità è quello di coltivare la pazienza.

Esigo molto da me stessa, come se avessi dentro una governante tedesca che mi detta tempi e modalità nell’operare, e quindi esigo molto anche da chi mi sta vicino.

Credo di essere un buon datore di lavoro, perché ho imparato a misurarmi per prima nei compiti che impartisco e nei momenti clou, quando è necessario mettere la “prima”, sono lì con loro, pioggia battente o sole che arde.

Ho avuto un’infanzia felice, figlia unica, mio padre veterinario, mamma casalinga. Ho goduto di una famiglia allargata, con tanti zii paterni e cugini. Trascorrevamo in campagna le vacanze e i fine settimana. Allora Santa Tecla era un borgo ancora abitato dai contadini, un brulicare di gente operosa, allegria, canti e, a sera, io andavo nelle loro case e con gli altri bimbi ascoltavamo le storie raccontate dai vecchi.

Parenti. In casa nostra la stufa a legna piena zeppa di tegami e pentole che sobbollivano diffondendo aromi di piatti prelibati per i parenti, tanti, che avrebbero formato da lì a breve lunghe tavolate.

Il rituale del pane, impastato nella madia di nonna dalle solerti operaie, teli di lino che andavano a coprire i vari formati in lievitazione e gli uomini che trasportavano rami per il forno governato dal rigido fochista che avrebbe lui solo stabilito il momento giusto per infornarlo.

E poi la vedemmia, la raccolta delle olive, la curiosità di entrare in frantoio e vederlo. Odori, sapori di un tempo andato, un paradiso perduto. Per lunghi periodi vivo ancora qui, con mio marito, ma spesso sento l’assenza di qualcosa e mi rifugio nei ricordi per scaldarmi il cuore.

Mi occupo della mia azienda dal 1995. Alla morte di mio padre dovetti operare una scelta e smisi la professione, non senza rimpianti, ma senza esitazione alcuna. I primi anni furono devastanti, dovetti misurarmi con la fatica fisica cui non ero avvezza, e le carte in gioco si rimescolavano continuamente. Anche il dialetto fu una barriera da superare, come il conquistarmi il rispetto di un mondo maschile che mi guardava con poca convinzione, pensando che avrei mollato da un momento all’altro.

E poi, due alluvioni: nel 2000 e 2003. Parte della statale crollò giù, fino ai miei terreni, danni ingentissimi, alberi abbattuti, la viabilità interpoderale distrutta, danni ai caseggiati. Ma superai con caparbia ostinazione anche quei momenti. Avevo già intrapreso, inoltre, un’operazione di drastica potatura di piante secolari, rinunciando a una importante produzione di olio di oliva vergine e lampante, per il mio sogno di una produzione di qualità, ma di quantità enormemente inferiore.

Ho ricominciato daccapo, un’altra volta. Ho studiato, ho cercato di saperne di più. Mi sono confrontata e di anno in anno aquisisco sempre piu sicurezza e conoscenza. E in parte ho realizzato il mio sogno: vendere, col mio marchio, l’olio extra vergine di oliva Santa Tecla. Ma è una creatura giovane di appena tre anni, l’accudisco e cerco di farle strada. Il mio motto è “ciò che si fa bene può essere fatto anche meglio”.

E’ una strada che mi accorgo porta lontano, fuori dai confini italiani, dove c’è ancora, nei confronti dell’olio, quella sana curiosità, e la scoperta, non solo di un condimento, ma di un alimento espressione del made in Italy. Espressione di una ricchezza e varietà di prodotti eccellenti che non riusciamo però a difendere e ad imporre.

L’agricoltura patirà sempre fin quando saremo ostaggi di associazioni che non ci rappresentano e, soprattutto, di una classe politica che, da quella locale a quella nazionale, senza la minima competenza, ci sommerge solo di carte, obbighi e doveri, e in più non ci valorizza nemmeno.

Non credo a una rivoluzione del sistema, al cosiddetto ricambio della classe dirigente e, soprattutto, per noi in Calabria, la ritengo una pura utopia. Credo invece a una rivoluzione culturare prossima, ormai. La crisi attuale ha di buono che ha costretto noi consumatori a sovvertire le priorità di consumo. Siamo piu attenti, e quando si può compriamo meno ma di qualità.

Credo a un ritorno a una vita più semplice, al ritorno alla terra. O, forse, anche questo è un sogno. Ma sono come i miei alberi, con ancora cime felici non domabili in cerca di libertà.

Il mio è un sogno di libertà. Opero in una regione difficile, da sempre bistrattata, dove, una classe media di gente colta e illuminata, rifugge, da sempre incarichi di responsabilità pubblica per timore di dover giungere a patti e a compromessi. Ciò ci ha resi realtà sempre un po’ isolata, torrioni silenziosi. C’è paura di emergere, per non diventare facili bersagli, paura di arretrare per non lasciare facili vantaggi.

Ho sempre amato leggere, da giovane sopratutto i classici, in seguito mi appassionai ai contemporanei. Calvino, Hesse, Marai, Marquez i miei preferiti. I miei libri preferiti: Il barone rampante, Cent’anni di solitudine, L’amore ai tempi del colera, La donna giusta. E’ Kuki Galmann la scrittrice che mi fa sognare. Con i suoi libri autobiografici è diventeta per me un punto di riferimento. In lei e nella sua avventura pioneristica in Africa mi sono riconosciuta – fatte le debite proporzioni.

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